Capitolo 17

Seguitano gli innumerevoli travagli che il valoroso Don Cyshiter patì insieme al suo fido scudiero Sergio Zanca nell'ostello che egli, a suo danno, credeva un palazzo elfico

L'indomani mattina, alle prime luci dell'alba, Don Cyshiter si riprese un poco e si svegliò.
«Sergio, amico mio, dormi? Dormi tu, Sergio, amico mio?»
«E come faccio a dormire con te che continui a chiamarmi? Il risveglio perfetto dopo una notte infernale.»
«Ah! Non dici male. O io ho perduto il senno, o questo palazzo è maledetto. Devo rivelarti una cosa ma devi giurarmi di non farne parola con alcuno.»
«Va bene, lo giuro.» Rispose Sergio.
«Te lo raccomando, perché qualcuno potrebbe trovarsi disonorato da questa verità e io non lo voglio.»
«Ripeto e giuro che custodirò il segreto fino alla tua morte, e spero di poterlo rivelare già domani.»
«Mi porti dunque così tanto rancore da volermi vedere morto così presto?»
«Non è per questo. È che non mi piace di tenere segreti; non vorrei che a conservare troppo a lungo un segreto mi si infradiciasse nello stomaco.»
«Sia quel che sia, io mi fido della tua discrezione.
Devi dunque sapere che mi è accaduta una delle avventure più strane che si possano immaginare: questa notte è venuta da me la figlia del Signore di questo palazzo, una delle vergini più leggiadre della sublime razza elfica.
Che ti potrei dire della gentilezza della sua persona? Del suo gran discernimento?»
«Come ce l'aveva il discernimento? Era sodo?»
«Le qualità cui pensi tu, che sei di allineamento Caotico, seppur buono, noi paladini non facciamo menzione.
Mi limiterò a dirti della maledizione che minaccia questo posto, poiché mentre mi intrattenevo con lei in dolci e amorosi colloqui, sono stato subitaneamente attaccato da una mano gigante, che sospetto essere frutto di un potentissimo incantesimo chiamato "Pugno serrato di Bigby".
Mi ha dato un colpo così forte alle ganasce che mi ritrovo tutto coperto di sangue, e poi mi ha afferrato stritolandomi le costole così forte che mi ritrovo più dolorante di ieri dopo l'imboscate dagli Yuan-ti.
Ora io sospetto che qualcuno abbia gettato una maledizione su quella damigella per preservarne la virtù.»
«Questa volta non sarò io a fare pensieri strani. Questa notte sono stato pestato dagli orchi, che le botte degli Ianguesi di ieri a confronto sembrano un massaggio thailandese.
Almeno tu hai avuto tra le mani quella bellezza che hai detto, io invece niente. Mi venga un cancro se voglio fare il paladino, eppure mi piglio sempre la maggior parte delle saccagnate.»
«Dunque anche tu sei stato colpito e rimani con pochi Punti Ferita?»
«E non t'ho detto di sì?»
«Non ti affliggere amico mio, che io procurerò tosto per noi una pozione di cura che ci risanerà in un batter d'occhio.»

Il camionista fu svegliato da quel chiacchiericcio e, essendo uomo capace di passare rapidamente alla veglia, scese velocemente dal letto a castello e ne buttò la scaletta di ferro sul paladino convalescente, come ultimo ringraziamento per la mancata notte di svago. Prese velocemente la borsa con le proprie cose ed andò a prepararsi altrove.
«Ah! Sergio! Mi hanno colpito con un colpo subitaneo. Credo fosse lo stesso stregone elfico che custodisce il virtù della principessa, ma possibile che un incantatore abbia Iniziativa Migliorata?!»
«Se è lui, pare che tiene 'sta virtù in serbo per qualcun altro, e per noi ha solo una buona scorta di ceffoni e sprangate.»
«Così è ma non possiamo rispondere con la violenza o rischieremmo di creare un grave incidente diplomatico. È necessario che Elfi e Umani rimangano coesi contro i nemici comuni.»
Lo scudiero era troppo dolorante per giudicare con lucidità quelle farneticazioni.
«Sergio,» disse Don Cyshiter dopo un po', «alzati se puoi, ho un compito adatto alla tua Classe.
Non possiamo affidare la nostra guarigione esclusivamente al personale del palazzo, fra esso potrebbero esserci dei nemici.»
Dopo quella notte, il buon Zanca teneva in conto che il mondo intero gli fosse nemico.
«Per questa cagione non possiamo richiedere al signore del palazzo una pozione di cura come ti avevo promesso, pertanto dovremo fare affidamento sulle nostre capacità.
Ora, la mia persona non è ufficialmente atta a preparare una pozione di cura, essendo il mio livello come incantatore ancora troppo basso e non avendo fin'ora sviluppato l'abilità di mescere pozioni.
Ma è pur vero che la realtà non è l'applicazione del regolamento, piuttosto il regolamento una rappresentazione della realtà.
Ora io, nella mia esperienza di avventuriero, ho visto mescere pozioni, ne ho utilizzate io stesso, e anche posseggo in me, indegno, una scintilla della magia della dea superna.
È dunque possibile, se i dadi ci favoriranno guardando il cielo col giusto volto, che io sintetizzi una pozione di cura, se non per ferite gravi, almeno coadiuvante alla mia abilità di imposizione delle mani.»
«Eh, beh. Cioè? Che devo fare io?»
«Introduciti nelle cucine e procurati rosmarino, olio, sale e vino acetificato. Non usare il sotterfugio, ma la diplomazia se ti è possibile.
Con codesti ingredienti tenterò di approntare una pozione che possa aiutarci a tornare tosto in sella.»
Sergio si alzò tutto dolorante e si avviò per i corridoi dell'ostello, finché non si imbatté nella cucina. Lì vi trovò la padrona, già al lavoro. Quando le chiese gli ingredienti per la pozione, ella si convinse una volta per tutte della sua pazzia; l'abitudine e la noncuranza tuttavia prevalsero sul buonsenso, ed insieme agli altri ingredienti ella consegnò al ragazzo una bottiglia di vino.
Avuti finalmente i suoi ingredienti, Don Cyshiter li mescolò nella bottiglia del vino. Passò quindi decine di minuti con le mani sulla bottiglia, come un santone intento a guarire con la pranoterapia. Assisteva alla cerimonia solo Sergio, visto che il camionista era ormai ripartito per la propria strada.
Don Cyshiter volle subito far lui stesso prova delle virtù che attribuiva a quella pozione, e perciò ne bevve velocemente due generose golate.
Aveva appena finito di buttarlo giù, che subito iniziò a vomitare così forte da riempirsi di sudore, finché non gli rimase più nulla nello stomaco. Si rimise quindi nel letto e lì rimase, profondamente addormentato, per tre ore.
Quando si destò si sentì molto meglio di stomaco e anche molto sollevato dalle proprie contusioni, tanto che credette di essere davvero riuscito a mescere una Pozione di cura. Con quel rimedio avrebbe, da quel momento in avanti, potuto affrontare qualsiasi combattimento anche senza un curatore nel party.
Sergio Zanca, che aveva nascosto sotto  il letto numerosi fogli di carta casa pieni di vomito, credette un vero miracolo la guarigione del suo compagno e lo pregò di dargli quel che rimaneva nella bottiglia, e non era poco. Il paladino gli disse di servirsi e Sergio, presala a due mani, con gran fiducia e di buona voglia, bevve a garganella e ne mando giù poco meno del suo amico. Ma lo stomaco del povero Sergio non era altrettanto delicato, perciò prima di rimettere fu preso da convulsioni, conati, sudori e dolori, e dovette fare tali sforzi che credette proprio di star per tirare le cuoia. Malediceva tutte le pozioni, le porzioni e le posizioni del mondo, e quell'assassino che le preparava.
Don Cyshiter, vedendolo in quello stato, disse:
«Penso che sia tu ad aver fatto un tiro sfortunato sulla Tempra, o Sergio, perché io ho chiaramente dimostrato di aver mesciuto una Pozione efficacie.»
Ma intanto il beverone sortì il suo effetto e il povero scudiero cominciò a versare da entrambi i canali in così rapida sequenza che non sapeva più che orifizio rivolgere al cesso. Né infine tutto ciò servì a farlo sentire rinvigorito come il suo mentore, ma anzi ne uscì rintronato e con le budella accartocciate.

Era giunta così l'ora del pranzo e l'ostello si stava popolando di quanti vi si rivolgevano per lo spartano servizio di seconda colazione.
Don Cyshiter si sentiva così fiero del successo della pozione che non avvertiva la fame e, alleggerito e sano, si risolse di ripartire in cerca di avventura, sembrandogli che ogni indugio fosse tempo tolto al bene del mondo e di quanti avevano bisogno di lui.
Vinto dunque da tal desiderio, preparò egli stesso le moto e aiutò il suo scudiero, che per una volta non aveva voglia di mangiare.
Mentre indossava l'armatura stavano a guardarlo alcuni clienti e la figlia dell'oste, che non poteva fare a meno di fissarlo. Ed egli ricambiava il suo sguardo, traendo di tanto in tanto profondi sospiri e gemiti, che gli altri attribuivano ai dolori per le ammaccature.
Quando tutto fu pronto, Don Cyshiter montò in sella e disse al gestore, che gli si era fatto incontro:
«Molti e molto grandi sono i favori che ho ricevuti in questo vostro palazzo, e ve ne resterò obbligatissimo per tutto il corso della mia vita. Se posso compensarvene col vendicarvi di qualche superbo che vi abbia fatto alcun torto, voi già sapete che il debito mio è di sostenere i deboli, di vendicare le ingiurie e di punire i temerari. Badate se avete che comandarmi in tale proposito, e basterà una vostra parola ch'io vi prometto, per l'ordine di paladino da me ricevuto di rendervi giustizia.»
L'albergatore gli rispose con tono altrettanto serio:
«Non ho bisogno, signor cavaliere, che lei mi ripaghi nessun torto, perché all'occorrenza so difendermi da me. o bisogno piuttosto che mi si paghino i due soggiorni e la cena di ieri.
Siccome nella confusione di ieri non vi ho chiesto i documenti per registrarvi, posso chiudere un occhio sul casino di questa notte e facciamo 80 Euro in tutto.»
«Che forse questa è un'osteria?!»
«Ostello e osteria, e di quelle buone, anche.»
«E voi fino ad ora mi avete dato ad intendere che fosse il palazzo reale. Mi avete trattenuto coll'inganno per far lustro al vostro esercizio e nella speranza che fugassi il malvagio incantatore che vi si nasconde, e ora vorreste chiedermi un fio per la notte.
Per l'onore dell'ordine che rappresento, non c'è altro da fare che fregarmene del conto, perché non è al sotterfugio ma alle preghiere che rispondono i paladini di Selune.»
«Non mi interessa,» rispose l'albergatore, «adesso mi paghi il conto e lasciamo stare le altre cretinate.»
«Tu sei un imbecille e un mercante randomico pregenerato.» Ribatté Don Cyshiter. E dando gas guadagnò l'uscita del cortile con la lancia abbassata, senza poter essere fermato da chicchessia.

L'albergatore a questo punto fermò Sergio Zanca che stava tentando di squagliarsela a sua volta. Questi dichiarò che non avrebbe pagato né più né meno del suo compagno, giacché essendo egli scudiero di un paladino, doveva seguire la stessa condotta.
Volle però la sua cattiva sorte che, fra quanti si trovavano lì per il pranzo, ci fossero quattro vaccari di Lanzo e alcuni operai di Balangero, gente allegra e dabbene ma sempre pronta alle burle. Questi, come se un medesimo spirito li istigasse, si accostarono a Sergio e lo fecero scendere dall'asino.
Uno di essi intanto andò a prendere una coperta dal dormitorio, la portò nel cortile e ci fecero distendere lo scudiero. Cominciarono quindi a tendere la coperta e sbalzarlo in aria come una squadra di pompieri malvagi.
Furono così forti le grida del povero sobbalzato che giunsero al suo compagno, il quale, fermatosi ad ascoltare con attenzione, credette che stesse per cominciare qualche nuova avventura, ma poi riconobbe la voce dell'amico. Girato il manubrio, tornò di gran carriera all'ostello. Trovò chiuso il cancello ma si accostò alla staccionata che circondava il cortile e si issò sulla motocicletta per vedere oltre la siepe. Vide Sergio salire in aria e ridiscendere con tanta agilità e grazia, che se non avesse avuto l'animo inviperito ne avrebbe riso egli stesso.
Provò ad arrampicarsi dalla moto oltre la staccionata, ma non gli fu possibile tanto era ancora dolorante; cominciò quindi a tirare tanti insulti e vituperi contro quelli che si prendevano gioco di Sergio, che se li riportassi tutti mi censurerebbero il blog. E loro, non di meno, continuavano a ridere e scagliare sempre più in alto Sergio, il quale ora gridava, ora minacciava, ora pregava, ma sempre senza effetto poiché essi non abbandonarono il gioco se non quando ne furono stanchi.
A quel punto lo rimisero in sella al suo motorino con qualche pacca sulla spalle. La compassionevole Maritorna gli portò da bere per confortarlo, ma prima che avesse portato il bicchiere alle labbra il suo amico gli urlò da dietro la siepe:
«Sergio, fratello, non bere! Ho ancora qua la preziosa pozione per la cui virtù risanerai bevendone un solo sorso.»
Sergio bevve di buon grado e, non appena i gaudenti ebbero riaperto il cancello del cortile, ne uscì contentissimo di non aver pagato nemmeno un euro.
Vero è che l'oste come pagamento si era tenuto le bisacce dimenticate da Sergio, con quel poco che contenevano, ma presto si sarebbe pentito di essersi accontentato del modesto compenso non appena avesse scoperto il lavoro che avevano lasciato i due sotto un letto del dormitorio, dove ristagnava ancora il vomito di Don Cyshiter, pudicamente coperto da alcuni fogli di carta assorbente.

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